Assegnazione della casa familiare

Assegnazione della casa familiare

Ospitiamo oggi un articolo sull’assegnazione della casa coniugale.

Sovente ci si rivolge al nostro Studio per svolgere delle indagini su chi occupa realmente la casa coniugale. Nella maggior parte dei casi, capita che il nuovo compagno o la nuova compagna vadano a convivere nella ex “casa coniugale”.

Fondamentale in questo caso l’intervento dell’investigatore privato che dimostra il venir meno delle condizioni di assegnazione della casa coniugale da parte del Giudice.

Il provvedimento di assegnazione della casa familiare viene meno anche quando il figlio diventa economicamente autonomo, se sono più di uno, quando l’ultimo dei figli diventa indipendente. Potrebbe verificarsi che i figli, volutamente, siano privi di posizione contributiva. Anche in questo caso sarà importante l’intervento dell’investigatore privato che dimostri la reale attività lavorativa dei figli.

ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE

a cura dell’Avv. Giampaolo Pisano del Foro di Cagliari, Presidente dell’Associazione Mamme Papà Separati Sardegna

Non è raro che un genitore che si appresta a separarsi dal coniuge, fra le varie domande che mi pone, mi chieda anche di sapere a chi verrà assegnata la casa coniugale dopo la separazione.
La domanda è legittima, soprattutto se si pensa che generalmente i coniugi investono in quel bene gran parte dei risparmi di una vita. La domanda è ancora più comprensibile allorquando l’immobile è di proprietà esclusiva proprio del cliente che ha posto la domanda, il quale rischia di perdere la disponibilità della casa anche per vari decenni.

Per rispondere al quesito è bene partire dal dettato normativo. L’articolo 337sexies del CC esordisce precisando che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”. Quindi, al fine dell’assegnazione della casa coniugale, il primo e principale elemento di valutazione è l’interesse dei figli. Ogni altro elemento di valutazione dovrà essere valutato dal giudice secondariamente rispetto all’interesse dei figli.

Per avere diritto all’assegnazione della casa coniugale è quindi indispensabile che il soggetto che chiede l’assegnazione abbia anche ottenuto l’affido e la collocazione dei figli non economicamente indipendenti. La Corte di Cassazione ha precisato che l’assegnazione della casa “è finalizzata all’esclusiva tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta, onde, finanche nell’ipotesi in cui sia di proprietà comune dei coniugi, la concessione del beneficio in questione resta subordinata all’imprescindibile presupposto dell’affidamento dei figli minori o della convivenza con i figli maggiorenni ma non economicamente autosufficienti” (Ord. 24254/18).

L’orientamento prevalente ritiene che non sia possibile assegnare la casa coniugale al genitore che non sia anche affidatario o collocatario dei figli.
Pertanto, è chiaro che lo scopo della norma è quello di tutelare e proteggere i figli che si trovano nella fase di separazione dei genitori, in quanto ritenuti i soggetti più deboli della famiglia.
Una volta chiarito l’istituto dell’assegnazione della casa coniugale, il genitore non assegnatario, ma proprietario o comproprietario dell’immobile, immancabilmente chiede “ma quando potrò rientrare in casa?”.

Il provvedimento di assegnazione perde efficacia quando il genitore collocatario cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o inizi una nuova convivenza more uxorio, ovvero, contragga nuovo matrimonio.
L’ulteriore caso in cui può chiedersi la revoca dell’assegnazione della casa coniugale è quello più frequente in cui cessa definitivamente la convivenza della prole col genitore assegnatario. Questo è il classico caso in cui i figli, oramai cresciuti, escano dal nucleo familiare d’origine per formarne uno nuovo.

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Il collocamento prevalente presso il padre

Il collocamento prevalente presso il padre

Dopo aver pubblicato su l’affido condiviso a cura dell’Avv. Giampaolo Pisano, vogliamo affrontare un argomento abbastanza “spigoloso” in giurisprudenza, ovvero il collocamento prevalente presso il padre.

 

Anche se non apertamente, è orientamento dei Tribunali l’affido condiviso oppure collocare i figli minori presso la madre, talvolta, ritenuta più idonea e attenta alle esigenze dei minori quando la coppia si separa o cessa la convivenza.

La Suprema Corte, ha ritenuto opportuno specificare che non si tratta di una “preferenza”, anche se vi è una netto orientamento in tal senso, ma bensì, la collocazione presso il padre, avviene nel caso in cui la madre venga ritenuta inidonea e di pregiudizio per la crescita dei figli minori.
A prescindere dal principio della bi genitorialità, come può essere dimostrata l’inidoneità della madre? E’ chiaro che devono essere acquisiti tutti gli elementi di prova che dimostrino che la madre non è in grado di svolgere i propri compiti sia per quanto riguarda la sfera affettiva, ovvero: attenzione, comprensione educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto con il padre che in qualche modo può essere emarginato dall’ex coniuge o dall’ex compagno.

Una volta che verranno effettuate tutte le indagini del caso, nella fattispecie, una relazione dettagliata da parte dell’ investigatore privato, e sulla base degli elementi acquisiti, si potrà proporre all’Autorità competente la collocazione presso il padre al fine di assicurare il recupero del rapporto, pregiudicato talvolta da lunghe interruzioni dovute all’atteggiamento da parte della madre nei confronti dell’ex o con atti ostruzionistici.

Sono sempre più frequenti i casi in cui i giudici hanno ritenuto di dover assegnare i minori figli al padre nel momento in cui la madre ostacola, in qualche modo il diritto di visita o comunque “utilizza” i figli come strumento di vendetta nei confronti del padre, quale ad esempio l’alienazione parentale che rientra, in taluni casi, nelle patologie psicologiche.

Ogni minore ha diritto a crescere con entrambi i genitori ma la collocazione può e deve essere modificata quando uno dei due ex coniugi o ex compagni ostacoli le relazioni parentali.

Certuni, tuttavia considerano che il collocamento prevalente presso il padre venga considerata come una “punizione” nei confronti del genitore che è palesemente affetto dalla sindrome di alienazione parentale.

Una recente ordinanza della Suprema Corte ha stabilito il collocamento di una figlia minore presso il padre, in quanto era stato dimostrato che il padre era in grado di creare un rapporto positivo con la prole rispetto alla madre considerata inidonea ad assicurare una regolarità educativa e di vita.

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L’affido condiviso, cos’è e come funziona

L’affido condiviso, cos’è e come funziona

AFFIDO CONDIVISO, COS’E’ E COME FUNZIONA

a cura dell’Avv. Giampaolo Pisano del Foro di Cagliari, Presidente dell’Associazione Mamme Papà Separati Sardegna

Mi è capitato spesso di ricevere in studio dei genitori separati che chiedevano di avere l’affido condiviso dei figli minori, così da tenere i figli pari tempo con l’altro genitore e,  conseguentemente, non versare alcun assegno di mantenimento.
Detta domanda è errata in quanto frutto di una cattiva interpretazione della legge sull’affido dei figli.

È quindi opportuno chiarire cos’è e come funziona l’affido dei minori nel nostro ordinamento.

Premesso che l’istituto dell’affido non riguarda i figli maggiorenni, è importante ricordare che è preciso dovere dei genitori prendere le decisioni sull’educazione, sulle cure, sulla scuola, indirizzo religioso, e su tutte le questioni rilevanti della vita dei minori.

Quindi, l’affido condiviso è la capacità di assumere in condivisione fra i genitori tutte le decisioni inerenti la crescita e lo sviluppo del figlio minore fino a quando quest’ultimo non avrà computo 18 anni.
Fino a quell’età entrambi i genitori sono chiamati a decidere congiuntamente, cioè insieme, tutte le decisioni inerenti la vita del minore, quali, l’indirizzo scolastico, quello religioso, ecc.

A nessun genitore è dato il diritto di assumere decisioni importanti senza il consenso dell’altro genitore.
È chiaro che il disposto normativo presuppone che vi sia un corretto e rispettoso dialogo fra i genitori separati. Per assumere le importanti decisioni sulla vita dei figli, deve esserci un confronto costruttivo fra genitori.
Purtroppo, questo non sempre accade. Spesso i genitori che si separano sono animati da sentimenti negativi, desideri di vendetta o riscatto e, soprattutto, non dialogano fra loro. In questo contesto è difficile, se non impossibile, condividere le scelte educative dei figli. Anzi, non di rado ho visto delle decisioni assunte da un genitore senza alcun rispetto per i figli ma prese unicamente per fare un dispetto all’altro genitore. Non c’è bisogno di aggiungere che detta condotta è censurabile sotto tutti i profili.
Nella crescita ed educazione di un minore è fondamentale anche la coabitazione, perché l’interno delle mura domestiche rappresenta il primo e più importante esempio educativo per un figlio. Quest’ultimo assorbe e riporta l’esempio ricevuto in casa. Quindi, nel caso di famiglia unita, il minore seguirà il duplice esempio del padre e della madre, mentre nel caso di genitori separati e non collaborativi il piccolo avrà il prevalente esempio del solo genitore convivente.
A tal proposito, deve evidenziarsi che benchè la riforma normativa abbia introdotto la regola generale dell’affido condiviso, i casi di affido esclusivo sono rari, la legge nulla dice sul luogo in cui il minore dovrà vivere materialmente.
Preso atto di questa lacuna, la giurisprudenza ha creato la figura del genitore collocatario, ossia del genitore presso il quale il minore dovrà risiedere in modo prevalente e presso il quale avrà la residenza anagrafica.
Il giudice, quindi, è chiamato a decidere presso quale genitore il minore dovrà soggiornare in via prevalente.
Pertanto, riportandoci alla premessa iniziale, bisogna ricordare che affidamento condiviso non significa necessariamente tenere i figli al 50% per ciascun genitore. Anzi, nella maggior parte dei casi ciò non avviene, il minore sarà collocato, ossia risiederà, in via permanente presso un genitore, lasciando all’altro il diritto di fargli visita secondo le regole che verranno disposte dal giudice.
Si è accennato al fatto che solo di rado il giudice dispone l’affido esclusivo in quanto vige la regola generale dell’affido condiviso. Tuttavia, se il giudice ravvede determinate condizioni lesive per l’interesse del minore, egli potrà affidare i figli minori ad un solo genitore.

Ad esempio, se un genitore vive lontano dal figlio e lo vede raramente, se ha trascurato i propri doveri educativi e di mantenimento verso il figlio, se si è disinteressato del figlio, omettendo di frequentarlo, se si è reso responsabile di condizionamenti negativi sul figlio nei confronti dell’altro genitore, se impedisce all’altro di svolgere i propri compiti genitoriali, se impedisce il rapporto tra il figlio e l’altro genitore.
Ovviamente in questo caso, il giudice deve motivare le ragioni in base alle quali ha disposto l’affidamento esclusivo.

Detta decisione comporta che il genitore escluso dall’affido non avrà alcun potere decisorio sulle scelte del figlio che verranno assunte dal solo genitore affidatario.
Tuttavia, il genitore escluso dall’affido è comunque obbligato all’osservanza dei doveri verso il figlio.
Egli dovrà ugualmente provvedere al mantenimento dei figli e dovrà vigilare sulle scelte dell’altro genitore.
Il genitore che intendesse chiedere l’affido esclusivo dovrà rivolgersi al giudice mediante l’assistenza di un avvocato competente in materia.
Il compito di quest’ultimo è fondamentale in quanto, l’avvocato deve valutare se sussistono le condizioni per la domanda e sconsigliare detta richiesta se questa è contraria all’interesse del minore.

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Mediazione Minorile

Mediazione Minorile

LA VIOLENZA NEL MONDO GIOVANILE E TECNICHE DI MEDIAZIONE

a cura del Prof. Avv. Bruno Troisi ordinario di diritto civile nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cagliari. Direttore della Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali

Come da molti è avvertito, da alcuni anni la violenza giovanile rappresenta un fenomeno estremamente preoccupante, tanto da essere al centro di dibattiti, di studi e di progetti istituzionali.

Certo, è una costante della storia l’atteggiamento critico delle vecchie generazioni nei confronti delle nuove, sempre caratterizzate da inquietudini e ribellione, da insofferenza e trasgressione. Ma le cronache degli ultimi anni sono ricche di episodi di particolare gravità che testimoniano un accresciuto disagio giovanile. Al riguardo, occorre, peraltro, non sottovalutare il fenomeno di amplificazione svolto dai mass media, posto che quando un episodio di violenza raggiunge la cronaca giornalistica è come se passasse sotto una lente d’ingrandimento che lo trasforma in un preoccupante segnale di degrado sociale.  

Dico questo, non certo per sottovalutare il fenomeno della violenza giovanile, ma per evitare che essa diventi un fuorviante ancorché rassicurante luogo comune, per mezzo del quale la violenza, in quanto generazionale, viene relegata in un mondo a noi estraneo

sì che il fenomeno tende ad essere generalizzato ed attribuito alla condizione stessa di adolescente, in qualità di imputato collettivo, a scapito di una lucida e obiettiva analisi – oltre che dei problemi individuali dei giovani – della realtà sociale, in vista della previsione di concrete politiche di intervento.

Ma cosa s’intende per violenza, e cosa s’intende, in particolare, per “violenza giovanile”?

E’ bene precisare che una definizione univoca di violenza appare assai difficile da elaborare, essendo molteplici e differenti le sue manifestazioni, a partire dagli autori, dalle cause, dai meccanismi che ne sono alla base, nonché rispetto alle circostanze, alle modalità e all’ambito di esercizio di essa, alle vittime, alle conseguenze, al grado di riprovazione sociale.

Secondo l’autorevole definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, per violenza si intende “l’uso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, altre persone o contro un gruppo o una comunità, da cui conseguono – o da cui hanno un’alta probabilità di conseguire- lesioni, morte, danni psicologici,  compromissioni nello sviluppo o deprivazioni”.
Esistono, dunque, diverse tipologie e  manifestazioni del fenomeno “violenza”, difficilmente riconducibili ad unità e difficilmente classificabili in modo esauriente (violenza auto inflitta e violenza verso altri; violenza emotiva e violenza predatoria; violenza individuale e violenza di gruppo; violenza virtuale e violenza reale, e così via).
Così come non esiste una definizione unitaria che sintetizzi l’identità del “ragazzo violento” come paradigma astratto.

E’, piuttosto, individuabile una pluralità di tipologie di violenza giovanile, a partire da quelle rappresentate dai ragazzi che abitano in territori ad alta densità criminale, e che spesso sono indotti ad assumere comportamenti violenti come proprio stile di vita (qui è l’ambiente a possedere potenzialità criminogene); a quelle tipologie connesse a fenomeni imitativi di gruppo. Qui ci si imbatte spesso in ragazzi provenienti da contesti sociali non devianti, ma che hanno trovato modo di esercitare nel gruppo una violenza impensabile al di fuori di esso: dalle aggressioni agli stupri al teppismo per noia (si pensi ai lanci di sassi dai cavalcavia, considerati dai loro autori alla stregua di un videogioco. Qui, violenza virtuale e violenza reale vengono a confondersi,  per una sorta di incapacità di distinguere l’una dall’altra), fino a quelle definite di “devianza leggera” (angherie in casa o fuori casa – ad esempio, a scuola – piccoli furti, ecc.), che hanno sempre caratterizzato la preadolescenza di molti ragazzi, mantenendo caratteristiche occasionali ed esprimendo una trasgressione fisiologica alle norme sociali, ma che oggi si vanno sempre più diffondendo e aggravando, a riprova dell’accresciuto disagio giovanile; fino a quelle tipologie caratterizzate da disturbi psichiatrici della condotta nelle differenti sfumature possibili, difficilmente inquadrabili in una casella diagnostica unitaria.

Da non ignorare, però, è il rischio, avvertito da autorevoli studiosi, di attivare con tali  definizioni il meccanismo di amplificazione e, perfino, di produzione della devianza. Secondo la c.d. teoria dell’etichettamento (1), infatti, attraverso l’assegnazione – da parte delle istituzioni, dei media e della società in generale – dell’etichetta di violento all’autore di un comportamento antisociale (in termini, ad esempio, di bullo, deviante, piccolo criminale, ecc.), si produrrebbe un effetto-paradosso, si innescherebbe cioè un processo in grado di trasformare l’autore di un singolo comportamento deviante in un delinquente cronico. Influirebbero su questo processo sia la diffidenza, l’ostilità e la riprovazione della collettività, in grado di ristrutturare la percezione di sé da parte del divisato “criminale” (per così dire, “convincendolo”), sia l’emarginazione sociale che le istituzioni e la società fatalmente provocano.
L’etichettamento produrrebbe, quindi, effetti deleteri sia sul piano della rappresentazione sociale e dell’autopercezione sia, conseguentemente, su quello della possibilità di recupero.
Per quanto riguarda, ancora, gli autori degli atti di violenza, anche se le statistiche mostrano che i comportamenti violenti sono molto più frequenti nei maschi che nelle femmine, queste ultime sono tutt’altro che esenti da condotte antisociali.
Negli ultimi tempi, infatti, si nota una tendenza sempre più diffusa di omologazione delle condotte devianti, nel senso che sembrano progressivamente cadute le barriere che differenziavano nettamente l’identità femminile da quella maschile, con l’effetto che le ragazze imitano i ragazzi anche nella manifestazione dell’aggressività (c.d. bullismo in rosa, altro che “angeli del ciclostile” di sessantottina memoria).
Aspetto ancor più delicato e complesso è quello riguardante il piano dei rimedi:
come intervenire, cioè, per gestire costruttivamente il fenomeno “violenza giovanile”.
Non è mancato quel filone di pensiero che pone  l’accento su una maggiore responsabilizzazione dei genitori, ritenuti protagonisti nel processo di formazione e socializzazione dei propri figli (si pensi al progetto di intervento sociale del primo ministro inglese Gordon Brown, il quale introdusse una formula abbastanza inedita, obbligando i genitori ad assumersi la responsabilità del recupero dei loro ragazzi, se vogliono continuare ad usufruire di benefici sociali).
Fondamentale appare, poi, il ruolo della scuola il cui obiettivo prioritario – una volta riconquistata l’antica autorevolezza – dev’essere quello di far prendere coscienza del proprio “io” e della propria emotività ai giovani, sempre più affogati in un mare di insoddisfazione, alla ricerca di un’identità che non trova espressione se non nell’ambito dei modelli offerti dalla moda e dalla pubblicità. Occorre, cioè, ridare ai giovani fiducia in un futuro che a molti appare non più come una promessa ma come una minaccia.
A tal fine, occorre favorire la comunicazione ampliando le capacità di ascolto, occorre favorire il senso di fiducia in se stessi, sviluppare le capacità vitali, essenziali per una sana crescita, e in particolare curare l’educazione sentimentale, arricchire la sfera emotiva e la relazionalità.
Naturalmente, per ridare fiducia ai giovani, è necessario che accanto all’opera della scuola e della famiglia, vi sia anche quella – fondamentale – delle Istituzioni, chiamate ad offrire ai giovani concrete prospettive per il loro avvenire.

Sul piano, poi, dei meccanismi di risposta alla violenza, accanto agli strumenti tradizionali, sicuramente utile può essere considerato quel modello che solo da pochi anni ha iniziato a diffondersi nella nostra cultura, incentrato sulle tecniche di mediazione quale gestione alternativa dei conflitti nascenti dall’assenza di
comunicazione che di solito si accompagna al comportamento violento; secondo i fautori delle tecniche di mediazione, la violenza – se non seguita dalla comunicazione, dal dialogo, dal confronto – avrebbe come conseguenza un insanabile conflitto, dovuto proprio a malintesi, a pre-giudizi, a emozioni negative inespresse (rabbia, delusione, umiliazione, paura) e così via.
Il fondamento di questo approccio educativo è rappresentato dal c.d. processo di accompagnamento, consistente in strategie di guida, di sostegno e apprendimento, e basato sull’esempio di modelli comportamentali diversi dall’uso della violenza, al fine di far “disimparare” ai giovani l’uso della violenza come modalità ordinaria di relazione.
Il presupposto su cui si basa la mediazione è che la vita sociale sia regolata da conflitti di diversa origine e natura e che questi possano risolversi attraverso un terzo soggetto, scelto e legittimato dalle parti, che in modo “neutro” favorisca una soluzione condivisa e alternativa agli interessi della singola parte.

In particolare, la cornice normativa che fa da sfondo alla mediazione penale minorile 2 è il D.P.R.448/88 all’interno del quale è  esplicitamente prevista l’opportunità della riconciliazione fra autore e vittima di reato con l’art.28 (“sospensione del processo e messa alla prova”).

All’interno di questa misura il minore viene inserito in un percorso di responsabilizzazione centrato su alcune attività educative e risocializzative. A seguito dell’analisi di fattibilità è possibile per alcuni casi, che il minore partecipi ad un percorso di riconciliazione con la vittima del reato.
Un’altra esplicita opportunità è data dall’art. 564 c.p.p. in cui, per reati perseguibili a querela, il pubblico ministero, anche prima delle indagini preliminari, può tentare la riconciliazione tra querelante e querelato. Anche all’interno del procedimento che regola l’affidamento in prova ai servizi sociali della giustizia, è previsto che l’autore di reato si adoperi in favore della vittima.
Altre misure del D.P.R. 448/88 vengono utilizzate come possibili ambiti di operatività della mediazione anche se non espressamente prevista. Gli indici normativi sono l’art.9 (“accertamenti di personalità del minore”), in cui la mediazione è utilizzata per valutare la responsabilità del minore e la consapevolezza delle conseguenze della sua azione; l’art.27 (“assoluzione per irrilevanza del fatto”), dove la mediazione viene utilizzata dal giudice per la valutazione del danno prodotto dal minore nei confronti della vittima; l’art.30 (“libertà controllata”) che è una misura alternativa alla detenzione in cui il giudice può prevedere come attività prevalente che il minore svolga un percorso di mediazione, dopo averne valutato la sua disponibilità insieme al gruppo di mediazione.
Entrando nel merito della mediazione penale, possiamo definirla come un’attività il cui obiettivo è quello di ricomporre il conflitto tra vittima ed autore del reato, attraverso un mediatore che in modo diretto o indiretto mette in comunicazione le domande e i vissuti dei due attori in riferimento all’azione-reato e ai suoi effetti sul piano giudiziario e psicologico.

Questa forma di intervento si è diffusa, a partire dagli anni settanta, negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e in nord Europa, con numerosi programmi che hanno avuto un notevole successo.

I punti fondamentali su cui si basa la mediazione riguardano:

a) il reato inteso come conflitto tra parti;

b) il sistema-autore vittima come punto focale dell’intervento;

c) l’accordo tra le parti come risoluzione del conflitto;

d) la flessibilità di attuazione delle mediazione dentro e fuori il sistema penale.

Per quanto riguarda il punto sub a), il reato è  considerato come il risultato di un conflitto tra le parti di cui una subisce un danno che ha implicazioni simboliche e materiali. Questa impostazione si differenzia da quella dei tradizionali modelli di giustizia come quello c.d. educativo-trattamentale che considera il reato come il risultato di problemi di personalità da cui la società deve proteggersi o come quello c.d. retributivo in cui il reato è visto come una infrazione delle regole penali che produce un danno alla società.

Quanto al punto sub b), l’intervento è centrato sul confronto fra le parti. In questo modo, l’autore del reato può confrontarsi con la vittima rendendosi conto delle conseguenze della sua azione, attivandosi in senso responsabilizzante verso di lei. La vittima può non solo comprendere i motivi del reato ma anche comprendere meglio le proprie strategie personali e di azione, inoltre può essere parte attiva nel chiedere direttamente all’autore del reato cosa questi può fare per lei. L’intervento assume un’ottica “sistemica”, superando l’orientamento centrato sull’autore di reato.

Quanto al punto sub c), l’accordo è il principale obiettivo della mediazione. Esso rappresenta la ricomposizione del conflitto. L’accordo può essere relativo ad un risarcimento economico, alla riparazione delle conseguenze del reato o alla riconciliazione tra vittima ed autore di reato. Il risarcimento economico viene utilizzato per reati lievi, come piccoli furti; la riparazione delle conseguenze del reato, invece, consiste nello svolgimento di un’attività pertinente nei suoi significati simbolici al danno commesso e viene svolta in favore della vittima. La riconciliazione consiste, per quanto riguarda l’autore di reato, nel confronto diretto con le conseguenze del reato, nel riconoscimento della propria responsabilità, in un ruolo più partecipe nel sistema della giustizia. Per quanto riguarda la vittima, l’obiettivo è la rielaborazione del reato, il contenimento della paura di subire altri reati, il recupero di un ruolo attivo nel sistema della giustizia.

Quanto al punto sub d), un aspetto che, segnatamente nei paesi anglosassoni, ha favorito ed incrementato la partecipazione ai programmi di mediazione è il fatto di potere essere svolta in sostituzione del procedimento giudiziario, come forma di depenalizzazione applicata a reati lievi. La mediazione è prevista durante l’esecuzione del programma risocializzativo della giustizia per i minori autori di reato o come alternativa alla misura penale.

Attraverso la mediazione viene ricomposta la comunicazione fra autore di reato e parte lesa, e quest’ultima viene rivalutata nel proprio ruolo potendo partecipare attivamente alla ricomposizione del conflitto, superando l’esigenza retributiva nei confronti di chi ha commesso il reato. La mediazione penale si integra bene con l’ottica risocializzativa della risposta penale che avrebbe in questo modo un suo rafforzamento e un reale compimento rispetto alla logica retributiva e punitiva.
Anche in tale prospettiva la mediazione rappresenta, senza dubbio. una potenziale risorsa per la cultura del cambiamento della giustizia nel nostro paese, anche se queste potenzialità sono difficili da sviluppare a causa del consolidamento dei sistemi tradizionali di tipo retributivo e sanzionatorio. Anche se ci sono delle difficoltà, vale la pena investire nella direzione della mediazione, in termini di sensibilizzazione culturale ed operativa verso chi intende operare nel settore della giustizia, non solo in campo minorile ma anche in quello degli adulti, per favorire questa opportunità innovativa per il sistema della giustizia.

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Controllo sui minori

Controllo sui minori

Tutela e controllo dei minori: sul bullismo

Con il termine bullismo s’intende definire un comportamento aggressivo ripetitivo nei confronti di chi non è in grado di difendersi.
I ruoli del bullismo, sono ben definiti: da una parte c’è il bullo, colui che attua dei comportamenti fisicamente e/o psicologicamente violenti e dall’altra parte la vittima, che è colui che in genere li subisce.

La sofferenza psicologica e l’esclusione sociale sono sperimentate molto frequentemente da bambini che, senza sceglierlo, si ritrovano a vestire il ruolo della vittima subendo ripetute umiliazioni da coloro che invece ricoprono il ruolo di bullo.
In alcuni periodi della vita – come l’adolescenza – i cambiamenti umorali e di comportamento sono all’ordine del giorno. Così come gli scontri e i confronti continui con i propri figli.

È quindi naturale chiedersi se si tratta di un momento passeggero, ovvero, se il vostro figlio è vittima del bullismo, perché non dialoga con la famiglia, è scontroso, si rinchiude spesso nella sua camera.

Nei casi in cui si sospetta che il figlio sia vittima di bullismo, che eserciti bullismo sui compagni, che usi droghe o alcool, è sicuramente consigliato rivolgersi all’investigatore privato, una delle figure professionali più indicata per svolgere con discrezione un controllo sui minori.

Questi fenomeni sono destinati a scomparire con la crescita e quindi con il superamento dell’età adolescenziale o se i figli stanno effettivamente seguendo strade pericolose che potrebbero avere conseguenze per tutto il resto della loro vita.

E’ preferibile un genitore che si preoccupa molto piuttosto che uno che non si preoccupa poco o talvolta per niente

Queste sono le indicazioni per valutare al meglio quando è il caso di rivolgersi ad un investigatore privato per il controllo del proprio figlio.
In questi casi un’indagine per sui minori può essere determinante e confermare le azioni scorrette dei figli. I genitori potranno così prendere adeguamenti provvedimenti.

Il controllo dei figli minorenni è un atto di grande responsabilità genitoriale, lo Studio Masile Investigazioni, si avvale di un eccellente staff di psicologi e avvocati che potranno guidarvi nelle scelte più opportune da operare.

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Padri e madri detectives coi figli. Indagini private, nuova frontiera

Padri e madri detectives coi figli. Indagini private, nuova frontiera

Papà detective, mamme hacker: basta un regalo in apparenza innocuo, come un portachiavi, per tracciare i movimenti dei figli. Un tempo era fantascienza, ora invece “le richieste ci sono anche a Cagliari ma il tema è delicato”, dice quasi sottovoce un tecnico informatico che lavora in uno dei centri di assistenza elettronica della città. “Esistono sistemi Gps facilmente occultabili che nascono come antifurto e diventano microspie”. E’ sufficiente avere una scheda Sim da inserire in una scatoletta, che magari viene nascosta nello scooter dei figli. Esistono anche applicazioni segrete per risalire a sms e chiamate.

Le spie.
I genitori che hanno un rapporto complicato con la tecnologia, invece, tendono a delegare l’attività di spionaggio agli investigatori privati, e c’è chi non abbandona il vecchio metodo del pedinamento. “Anche perché il Gps satellitare vale come un’intercettazione e l’articolo 617 bis parla chiaro: l’installazione di strumenti che hanno il fine di intercettare comunicazioni telefoniche è punito con la reclusione da uno a quattro anni”. Brunello Masile, investigatore privato con studio a due passi da via Sonnino, prende dalla libreria il Codice penale, poi racconta: “I genitori si rivolgono a noi, altroché, per seguire i figli, in genere quando hanno il sospetto che facciano uso di sostanze stupefacenti”. Il pedinamento funziona così: “Raccogliamo tutte le informazioni e compiliamo una sorta di scheda tecnica”. Poi si va sulle tracce del ragazzo: “Esistono apparecchiature incredibili per captare tutto quello che si dice”.

I software.
Localizzare i figli, recuperare i messaggi, ascoltare le chiamate oppure risalire a quello che hanno scritto su internet. In sostanza, una maniera moderna di leggere il diario segreto. Non possiamo farlo: ci limitiamo a installare i software cosiddetti spia esclusivamente sui telefoni di proprietà, per localizzarli e recuperarli in caso di furto. 

Il Dna.
Davide Matta, medico legale che si occupa di responsabilità civile e diritto previdenziale, ne ha sentite tante. “una madre, ad esempio, mi ha chiesto: attraverso un capello posso capire se mio figlio fa uso di droga?”. Ci sono laboratori che si occupano di tossicologia forense: è necessaria una ciocca, però, e il genitore detective è accontentato.

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